giovedì 26 settembre 2019

La saga familiare è attuale di default

In questi ultimi anni si è intensificata la tendenza delle case editrici a pubblicare saghe familiari, serie di romanzi in più volumi che narrano le vicissitudini di diverse generazioni.
Spesso si è trattato di rispolverare libri dati alle stampe nella prima metà del Novecento.
Si pensi ai Cazalet di Elisabeth Jane Howard oppure alla trilogia della Famiglia Aubrey di Rebecca West, tutti ambientati in Inghilterra, splendidi per le vicende e magnificamente scritti. 
Ancora di recente è stato pubblicato in Italia il primo volume della serie Jalna dell'autrice Mazo de la Roche, che narra tra Canada e Stati Uniti i destini incrociati dei membri della famiglia Whiteoak e che - a partire dalla sua prima uscita nel 1927 - ha conquistato generazioni di lettori in tutto il mondo.
Ma non mancano opere più recenti, dalla quadrilogia dell'Amica Geniale di Elena Ferrante fino alle Figlie di una Nuova Era di Carmen Korn per arrivare all'epopea dei Florio de I Leoni di Sicilia di Stefania Auci.

Ci sarebbe da domandarsi quale sia la ragione del rinnovato interesse dei lettori del XXI secolo per storie ambientate in un passato decisamente lontano e definitivamente superato: forse, la risposta sta nell'universalità dei sentimenti narrati e nella nostalgia per le atmosfere d'antan.
La novità sta anche nell'ampliarsi della platea dei lettori: questi romanzi non sono più considerati appannaggio del solo pubblico femminile, bensì vicini alla sensibilità di tutti, sia per i temi affrontati che per la capacità di coinvolgere grazie ad intrecci ben studiati, molto "cinematografici".

Non a caso tanti di questi titoli hanno avuto trasposizioni sul grande schermo.

Per quel che mi riguarda le serie "moderne", scritte da contemporanei anche se ambientate fra Ottocento e Novecento, e pur se rese in una prosa notevole sono - talvolta - meno efficaci delle precedenti.
Mancano di quella carica di novità e, a mio giudizio, di avanguardia che avevano i romanzi della Howard o delle altre colleghe citate le quali - al momento della pubblicazione - pur rivolgendosi ad un pubblico femminile, rompevano con la tradizione imponendosi per la loro modernità, per l'anticonformismo e il coraggio di affacciarsi a un ambiente, quello letterario, dominato da uomini.
Leggere la vita di Elisabeth Jane Howard, compagna del celebre Kingsley Amis e matrigna di Martin Amis, è illuminante: una donna coltissima, dotata di una personalità eclettica e piena di talento, che faticava ad imporsi, schiacciata dalla fama del proprio uomo.
Lo stesso può dirsi per Mazo de la Roche - non meno riservata e misteriosa della nostra Ferrante - una figura centrale della letteratura canadese, autrice dei 23 romanzi della serie ma anche di opere teatrali e racconti, vincitrice del The Atlantic Monthly Prize equivalente dell'attuale Man Booker Prize.
Insomma, non esistono più i romanzi di genere, esistono solo romanzi buoni o che non lo sono affatto.

martedì 24 settembre 2019

La versione di Ifemelu. Americanah - Chimamanda Ngozi Adichie

Ifemelu è una giovane nigeriana che lascia il suo paese per trasferirsi negli Stati Uniti.
Fatica ad inserirsi in un mondo totalmente diverso dal suo ma accetta con tenacia e forza d'animo ogni lavoro, anche al limite della moralità, e ogni condizione abitativa, anche umiliante, pur di farcela.
Per la prima volta si rende conto di cosa voglia dire essere diversi, considerati persone inferiori nella scala gerarchica dei gruppi etnici.
L'America la fagocita, la assimila, impara addirittura ad imitare la cadenza "americanah", un po' trascinata, così lontana dall'inglese perfetto appreso ai corsi di lingua seguiti da ragazzina, prima di espatriare; si adatta ad abbandonare la sua acconciatura afro fatta di treccine per adottare uno stile diverso, socialmente accettato, che le faciliti l'accesso al mondo del lavoro.
Ben presto però si rende conto di avere rinunciato ad una parte troppo importante di sé, si pente di avere abbandonato Obinze, il fidanzato dei tempi dell'università, e dopo anni di silenzio lo ricontatta.
Decide di rientrare in Nigeria, lasciandosi alle spalle gli Stati Uniti con le sue ipocrite ambiguità nel trattare le questioni razziali, un lavoro ben avviato da blogger e un nuovo amore, un nero americano sposando il quale si garantirebbe l'accesso al mondo dei neri che ce l'hanno fatta.

Il blog di Ifemelu sulle questioni razziali è l'espediente narrativo per raccontarci un punto di vista diverso da quello europeo o americano, per sottolineare che non tutti i neri sono uguali e si considerano uguali tra loro, che esiste una gerarchia sociale a seconda del colore della pelle e della tonalità, più o meno chiara, della stessa, che ci sono gli afroamericani e gli ameroafricani, che anche fra bianchi esistono discriminazioni in base ai gruppi etnici ed alla condizione socioeconomica:
"ispanico vuol dire che spesso si trova accanto ai neri americani nelle statistiche di povertà, ispanico vuol dire un gradino appena sopra ai neri americani nella scala razziale americana, ispanico vuol dire la donna peruviana dalla pelle color cioccolato, ispanico vuol dire gli indiani del Messico. Ispanico vuol dire gente più chiara di Portorico. Ispanico vuol dire anche il ragazzo biondo con gli occhi azzurri che viene dall'Argentina. Basta che parli spagnolo e non vieni dalla Spagna e, voilà, sei di razza ispanica" 
Un punto di vista molto interessante per un romanzo di formazione vero e proprio, a tratti duro nei toni e nei giudizi espressi, di grande attualità, con passi veramente toccanti che dovrebbero essere inseriti nelle antologie scolastiche.
Corale e intenso. 📖📖📖📖

Il libro in una frase: 
"Ifemelu avrebbe imparato che per Kimberly i poveri erano esenti da colpe. La povertà era qualcosa di luminoso; non poteva concepire che i poveri fossero cattivi o sgradevoli, perché erano canonizzati dalla loro povertà, e i più santi di tutti erano i poveri all'estero"

domenica 22 settembre 2019

I Provinciali di Jonathan Dee. Il trauma dell'11 settembre vissuto dall'America profonda

Howland, Massachussets.
All'indomani della tragedia dell'11/9 un finanziere lascia la Grande Mela e si trasferisce con la famiglia in una tranquilla cittadina di provincia, sperduta fra sconfinati campi di grano e strade statali che si snodano in mezzo al nulla.
Ne diventerà Primo cittadino, gestendola come cosa propria, affascinando e in qualche modo comprandosi la stima degli abitanti con il proprio paternalismo assistenziale.
Scatenerà reazioni contrastanti fra chi accetta di buon grado l'ingerenza nella vita pubblica - anche a discapito del principio dell'autodeterminazione - e chi in ciò intravede i rischi inerenti alla perdita di autonomia.

La prosa è ironica, caustica e acuta senza mai essere sopra le righe.

I provinciali non sono tutto sommato diversi dagli abitanti della metropoli, sono accomunati dalle stesse paure ancestrali, dallo stesso terrore per lo straniero, per il diverso, per chi non accetta di immedesimarsi completamente nei valori americani.
Non starò a raccontare il finale, naturalmente.
Ciò che più mi ha colpito è la descrizione dei personaggi, l'interazione fra i membri della famiglia del protagonista e la narrazione del ruolo dei media nell'influenzare l'opinione della massa, anche in un  piccolo e sperduto villaggio che diventa un microcosmo dove - su scala ridotta - si riproducono le medesime dinamiche relazionali di una grande realtà urbana.
Richiama a tratti la perfidia strisciante di alcuni personaggi stretti da legami familiari soffocanti de Le Correzioni o di Libertà di Franzen, oppure l'analisi della società alle prese con la paura del terrorismo di cui ha scritto Jennifer Egan in Guardami.

Bella anche la contrapposizione dialettica fra i due co-protagonisti, Mark Firth - costruttore edile sempliciotto, arricchitosi con il lavoro delle proprie mani, che vorrebbe moltiplicare i risparmi di una vita con gli hedge funds, di cui nulla capisce - e Philip Hadi, che incarna il sogno americano dell'uomo venuto dal nulla, capace di costruirsi una posizione di prestigio nel mondo aggressivo e spietato della Finanza.
Da leggere, per pensare.
CAUSTICO 📖📖📖

Il libro in una frase 

"si era fatto una sorta di immagine di se stesso, vedendosi come un uomo pieno di ambizioni, uno che non era felice se non pensava in grande, se non cresceva, se non conquistava"


sabato 21 settembre 2019

La trilogia di Pietro Fenoglio o dell'eccezionalità della vita di un uomo qualunque

Sempre fedele al motto "troppi libri belli troppo poco tempo" mi sono letta - in questi mesi estivi, con notevole ritardo sulla loro uscita - i tre volumi di Gianrico Carofiglio che vedono come protagonista il maresciallo Pietro Fenoglio.
Tre volumi molto diversi fra loro, invero, non tanto nello stile dell'autore - sempre molto personale - quanto nel contenuto.

Con il primo volume - Una mutevole verità - ci viene introdotto il protagonista: Pietro Fenoglio è un giovane maresciallo di origini torinesi, trasferitosi per amore a Bari, sposato con una professoressa, afflitto dal dispiacere di non poter avere figli per una sterilità a lui attribuibile, raffinato pensatore, amante dei libri.
Ex studente universitario di Lettere, riservato e malinconico, patito di arte e di musica classica, è giunto all'Arma per le casualità della vita.
Fenoglio è un investigatore acuto, mai fuori dalle righe, rispettato dai colleghi, dai superiori gerarchici e dai magistrati per l'abilità investigativa e per la capacità di mantenere il sangue freddo, senza indulgere nella tentazione di usare la violenza, anche nelle occasioni più propizie.

Il caso su cui è chiamato ad indagare nel primo romanzo è tutto sommato marginale, è l'espediente per offrirci il personaggio e farcelo conoscere nella sua complessità.

Solo con L'estate fredda - a mio giudizio il migliore dei tre - si entra a pieno titolo nel giallo d'autore: siamo nel 1992, l'estate della strage di Capaci e di Via D'Amelio, e Fenoglio è chiamato a indagare sul barbaro assassinio del figlioletto di un boss locale. Tutti gli indizi convergono su un mafioso scissionista, affiliato al clan del padre del ragazzino trucidato ma alla ricerca di un suo spazio nel mondo della malavita. Tuttavia la verità è ben lontana dalle apparenze. 

Un giallo di impianto classico, complesso, alla Simenon, che si snoda tutto attorno all'abilità nel ragionamento astratto di Fenoglio, il quale nel frattempo vive un momento personale di intenso malessere, a causa dell'allontanamento della moglie. 

Con La versione di Fenoglio - terzo volume - si ha l'impressione che l'autore voglia congedarsi dal personaggio, facendolo chiudere in bellezza, alla vigilia del pensionamento, quando si ritrova a percorrere a ritroso alcuni casi affrontati nella sua carriera grazie alle conversazioni con un giovane - Giulio - casualmente incontrato in uno studio fisioterapico.

E' il suo commiato dalla carriera, ma non certo dalla vita, pronta ad aprirsi a nuove speranze e possibilità anche grazie all'incontro con una donna che - dopo la fine del matrimonio - gli ridarà fiducia nel futuro.

Carofiglio ha saputo raccontare l'eccezionalità di un uomo che ha vissuto un'esistenza tutto sommato convenzionale, rispettoso dei valori in cui crede, innamorato della bellezza dell'arte, del tutto privo di manie di protagonismo.
L'autorevolezza di Fenoglio balza all'evidenza di chiunque lo abbia conosciuto: è un eroe del quotidiano, che ho sentito spiritualmente molto vicino allo Stoner di John Williams.
La dimostrazione che la statura morale ed intellettuale non si misura con la fama e l'affermazione sociale, ma con la capacità di rimanere fedele a stessi e ai propri principi.
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venerdì 20 settembre 2019

Ma un romanzo breve è un racconto lungo? Dissertazioni semiserie sul tema del genere letterario "racconto"

Non so precisamente il motivo, ma da tutta la vita ho l'idiosincrasia per le letture brevi, come se fossero un genere minore, meno importante, meno incisivo.
So che così non è, tuttavia deve essere scattato qualcosa nella mia mente di studente - quindi di lettore sottoposto ad una certa misura di coercizione da parte dell'insegnante di turno - e poi di lettore autonomo, come dire, "volontariamente arruolato e in servizio permanente".
Un incontro sbagliato, un fraintendimento, uno sliding doors mi ha portato molto precocemente a rifuggire dai racconti.

Fino ai dieci anni circa penso di avere letto parecchie fiabe, Grimm, Perrault, Andersen, apprezzandone la trama e la capacità di coinvolgere con storie evocative delle più ancestrali paure dell'infanzia.
E' solo qualche anno dopo che mi imbatto - tiepidamente, lo ammetto - con Verga e le sue novelle (che associo al risorgimento italiano ed alla retorica dell'epopea garibaldina), e poi con Pirandello e Piero Chiara, che pure ho amato moltissimo.

Non molti, in realtà.

Forse è - banalmente - una questione di lunghezza, mi spiego: la necessità di condensare in poche pagine un fatto, dei personaggi, una trama che avvinca il lettore a mio giudizio spinge chi scrive a "caricare" troppo, a esagerare in virtuosismi letterari. E se non si è Edgar Allan Poe o Maupassant il rischio di strafare è dietro l'angolo.

I racconti spesso sono splendidamente scritti, con una prosa notevole ed un lessico curato nei dettagli, ma la storia ha troppo poco tempo per imprimersi nella parte più emotiva del cervello e velocemente sfugge alla memoria dei sensi, senza depositarvi alcuna emozione durevole. Come dire, li apprezzo a livello puramente estetico, ma non li interiorizzo minimamente, non entro in empatia con il significato.

Più o meno per lo stesso motivo guardo con sospetto ai romanzi brevi.

Di recente sono stata smentita dalla lettura di alcuni "romanzi brevi" di particolare valore che mi hanno spinto a riconsiderare la mia posizione. Fra tutti Gli Autunnali di Luca Ricci, superbamente scritto, con un lessico preciso e tagliente: qui i personaggi restano, sedimentano diventando miei, così come la storia non è banale ed anzi scorre piacevolmente, intrigante ed allusiva, potente.

Ho come l'impressione che non sia facile scrivere letteratura, o più modestamente buona narrativa, in forma breve e che sia l'arte di pochi e per pochi.📖📖📖

giovedì 19 settembre 2019

Nolite te bastardes carborundorum. Il racconto dell'ancella - Margaret Atwood

Sono arrivata a questo libro con molti anni di ritardo sulla sua prima pubblicazione, avvenuta nel 1985.
Ci sono arrivata per vie traverse, sulla scia della serie televisiva americana, pluripremiata, e della presenza della sua autrice al Festival della Letteratura di Mantova 2019, dove ha presentato il seguito, "I Testamenti".
Ci sono arrivata, infine, per merito di terzi, cioè della libraia che ha proposto questo titolo come Libro del Mese nel Gruppo di Lettura che frequento.
Una folgorazione.
Un'epifania.
Forse uno dei pochi casi - a mia memoria (mmm... ma "Il Grande Gatsby" con Redford dove lo metto?) - di libro di pari efficacia espressiva rispetto alla sua trasposizione cinematografica, oltretutto.
Geniale per più motivi. 
Per l'originalità della trama distopica, che narra di un mondo futuro, affetto da malattie congenite e sterilità, in cui parte dell'America del Nord - chiamata Gilead - è dominata da una sorta di setta che interpreta rigidamente i precetti della Bibbia. 
Per l'attualità del tema della sottomissione della donna, ridotta a strumento per la prosecuzione della specie, cui è sottratto ogni diritto più elementare, da quello di istruirsi a quello di lavorare, finanche il diritto di leggere i libri. 
Ma la genialità del romanzo risiede soprattutto nella prosa, veramente intensa, drammatica, quasi ipnotica, che si snocciola in un fluire incessante di pensieri dell'Io Narrante, June l'ancella, privata addirittura del suo nome per assumere il patronimico della famiglia che la accoglie, cioè del suo comandante Fred Waterford: Difred o meglio Offred, dato che la traduzione italiana - a differenza della serie TV - ha scelto di mantenere il nome in lingua inglese.
Offred sa di non poter sfuggire al proprio destino, obbligata ogni mese a sottoporsi all'umiliazione della violenza sessuale, mascherata da cerimonia della fertilità, da parte del Comandante, sa che l'alternativa sarebbe la morte o nella migliore delle ipotesi la deportazione nelle Colonie di lavori forzati, in cui scontano la propria superbia le NonDonne, che si sono opposte al regime affermando con orgoglio la propria omosessualità, oppure scontano la propria inettitudine le donne sterili o non più in età fertile. 
Offred, tuttavia, si impegna con tutte le forze rimastele a mantenere la propria umanità, laddove la si vorrebbe ridurre a mero strumento riproduttivo; vive nell'incessante desiderio di ritrovare la figlia -  che le è stata strappata dalle braccia mentre tentava la fuga verso la frontiera canadese - e di riabbracciare il marito, della cui sopravvivenza neppure è certa.
Un filo la lega alle ancelle che l'hanno preceduta sulla strada verso l'affrancamento dal giogo di Gilead, quella frase incisa nel legno, all'interno dell'armadio della sua umile stanza, scritta con la forza della disperazione e con la speranza della liberazione: "nolite te bastardes carborundorum", non consentire che i bastardi ti annientino. 
Un monito che ha una valenza universale, laddove c'è una schiavitù, laddove ad un essere umano è negata la libertà, la capacità di autodeterminarsi e di lottare per la propria felicità.
DISTOPICO E POETICO 📖📖📖📖📖

Perché amo così tanto i libri di Maurizio De Giovanni

Il 19 settembre è San Gennaro e il pensiero corre inevitabilmente alla città di Napoli, e con essa a uno dei miei scrittori preferiti.
Non è facile spiegare la mia passione per i libri del suo autore contemporaneo sicuramente più noto al pubblico.
Talvolta la popolarità è giudicata dai critici di professione con un po' di snobismo e con una bella arricciata di naso, facile cadere nello stereotipo del "vende molto, indi è poco colto, poco ricercato, buono un po' per tutti i gusti".
Maurizio De Giovanni - invece - ha saputo coniugare alla perfezione la tradizione popolare, la Napoli da cartolina povera ma felice, quella dei Quartieri Spagnoli già ben rappresentata dal grande Eduardo, con una scrittura moderna e contemporanea, che appassiona una larga fascia di lettori.
In nessun altro romanzo ho saputo apprezzare il racconto della preparazione di un cibo tipico o di una festa religiosa - coi suoi riti e le sue tradizioni - come in quelli di De Giovanni.
La carta vincente è il lirismo che mette, soprattutto, nelle descrizioni degli ambienti e nel tratteggio della personalità dei suoi protagonisti, così trasparenti, così verosimili.
La sua capacità di avvincere il lettore si è espressa al massimo con la serie del Commissario Ricciardi, che da "Il senso del dolore" a "Il pianto dell'alba" è una parabola umana bellissima, tragica e piena di speranza, inserita splendidamente in una cornice storica buia come l'epoca fascista, di cui ci viene descritta la miseria e brutalità.
Ma anche la serie dei Bastardi di Pizzofalcone ha ben saputo cogliere - nella sua modernità - lo spirito dei tempi, in una Napoli pericolosa, costantemente sull'orlo del precipizio, che vuole riscattarsi da degrado, malavita e povertà e vuole mostrare il suo lato migliore.
Di Sara Morozzi - e dei due romanzi Rizzoli che la vedono protagonista - apprezzo invece il cambio di passo che l'autore ha voluto imprimere, presentandoci un personaggio atipico, che sfugge agli archetipi e si nasconde, da se stessa, dal suo passato, dai suoi sentimenti: la città pericolosa e seducente rimane sullo sfondo, non viene mai nominata, né l'intreccio giallo prende il sopravvento sulla vicenda umana e personale della "Mora".
Infine Mina Settembre dell'ultimo "Dodici rose a Settembre", assistente sociale, sensuale, ribelle, pasticciona, incapace di leggersi dentro, di separare vita privata e lavoro, di darsi le priorità, forse di darsi un'occasione di amare dopo il naufragio del proprio matrimonio: mi aspetto molto da questa nuova serie, più scanzonata e ironica delle precedenti.

mercoledì 18 settembre 2019

Leggo cose, vedo gente.

Leggere è un hobby molto comune fra le persone.
Soprattutto, ma non solo, fra le persone pigre.
Ed io sono una persona pigra ed anche molto comune.

Questo spazio nasce come sostituto del mio taccuino cartaceo su cui, in genere, annoto i libri  perché - leggendone diversi ed essendo decisamente predisposta a dimenticare titoli ed autori -  a volte perdo il conto di ciò che mi è già passato tra le mani.
Non è una gara con me stessa né con altri, non mi interessano più di quel tanto le challenge di Goodreads e simili, anche se visito volentieri quel sito per i suggerimenti, le opinioni altrui, le interviste e così via.
Non è uno sfoggio di cultura perché non ho particolari titoli, accademici e non, e leggo solo ciò che mi piace, senza impormi il tal romanzo o il tal altro, perché "non si può non avere letto questo classico" o perché "ha vinto quel Premio".
Qui è tutto meravigliosamente soggettivo.
E allora, si cominci.
📚📖📚😊

Verso Nord -Willy Wlautin

VERSO NORD Autore: Willy Vlautin Editore: Jimenez – Collana Narrativa Anno edizione: 2022 Anno prima edizione in lingua originale:...