venerdì 6 dicembre 2019

Non ho capito se mi è piaciuto il nuovo romanzo della Ferrante

Premetto che di Elena Ferrante ho letto solo la quadrilogia e non i romanzi precedenti.
Premetto altresi' che quando mi ci sono accostata nulla sapevo - forse non era ancora in atto - della furia mediatica che ha assalito mezzo mondo e della cosiddetta Ferrante fever.
I suoi romanzi mi piacquero subito, perché li trovai ben scritti ed intensi.
Detto questo aspettavo con una certa curiosità il nuovo libro.
E' ancora una volta una storia al femminile, in particolare, un romanzo di formazione.
La protagonista è Giovanna, un'adolescente della Napoli bene che, nell'affacciarsi alla giovinezza, fa i conti con le incomprensioni fra i genitori - che arrivano ad una dolorosa separazione - e con le sue stesse difficoltà a rapportarsi ad essi.
Cade il mito del padre perfetto, intellettuale illuminato, che si scopre avere intrattenuto per anni una relazione con una comune amica; cade il velo di mistero sulla famiglia di origine paterna, ritenuta dai suoi genitori poco presentabile e come tale preferibilmente da non frequentare e da non far frequentare alla figlia.
Cadono le mistificazioni sull'innominabile zia Vittoria, sorella del padre, colpevole nell'ottica di quest'ultimo di avere intrattenuto una relazione adulterina con un poco di buono, meschino come il resto degli abitanti della periferia napoletana, descrittaci come un luogo di povertà morale oltre che materiale.
Cadono le sue certezze sull'amore, quando l'incontro fortuito con un giovane insegnante universitario, Roberto - figlio della stessa periferia povera e scostumata da cui proviene il padre di Giovanna - le mostra e dimostra che anche in un contesto così degradato e culturalmente limitato può nascere una mente brillante.
E' un romanzo sull'ipocrisia del mondo degli adulti, sulla tendenza a giudicare gli altri nel contempo autoassolvendosi, sull'affacciarsi alla maturità, sulla difficoltà a darsi un'identità precisa, una fisionomia che ci caratterizzi rispetto al mondo.
E' bella la prosa, molto accurata, densa. In questo la accomuno alla Mazzantini.
Ci sono tuttavia alcuni aspetti che mi lasciano perplessa e mi impediscono al momento di formarmi un'opinione definitiva.

In primis, il finale aperto ma decisamente tranciante. Devo dedurne che è il volume primo: avrei preferito saperlo, come lettore, anche se amo le saghe familiari. E' una questione di chiarezza fra lettore e scrittore.

Inoltre, un solo riferimento temporale ci fa capire che ci troviamo a cavallo fra gli anni settanta e gli anni ottanta: non esiste in tutto il libro un richiamo a fatti, eventi storici, episodi di questo ventennio, il che crea un'atmosfera di sospensione temporale quasi onirica che, tuttavia, rende meno incisiva la narrazione. La stessa vicenda si sarebbe potuta collocare negli anni cinquanta o nei favolosi anni sessanta.
Il romanzo si sviluppa concentrandosi solo sui suoi personaggi, come se la realtà non toccasse mai le loro esistenze private: ci troviamo in un tempo sospeso da Deserto dei Tartari.

Da ultimo, la collocazione geografica è ugualmente generica. Di Napoli si descrive la contrapposizione fra città alta, borghese, centro storico elegante - quello del passeggio - e periferia degradata. Nient'altro. Napoli mi sembra più complessa da rendere, anche sociologicamente parlando.
Addirittura, le parti ambientate a Milano sono del tutto decontestualizzate, e come tali poco credibili: quando l'autrice scrive "università di Milano" a quale si riferisce (la Statale? la Cattolica? E' importante come particolare se consideriamo il background del personaggio "Roberto", che cresce umanamente in una parrocchia di periferia, tanto che in un primo momento ho avuto la sensazione che fosse un prete o un seminarista); quando Giovanna prende la metropolitana, in che spazio si muove, da dove arriva con il treno proveniente da Napoli? Non sembra la Stazione Centrale, se non per un generico richiamo ai marmi bianchi. Potrebbe essere tranquillamente la Gare de Lyon di Parigi. Dove si trova l'appartamento di Roberto? In un caseggiato di periferia? Anche Milano ha le sue diversità, ora come allora. Un conto è la Milano da bere, altro è la Milano dei Navigli, quella del Ponte della Ghisolfa e dei vari racconti di Testori, per intenderci.
E la scelta di far tornare Giovanna a Milano - appena riapprodata a Napoli - dopo un viaggio di rientro infinito, quasi apocalittico ce lo immaginiamo su un treno sferragliante, non è un tantino forzata? Inverosimile?
E il braccialetto antico, il silenzioso talismano che passa da un personaggio femminile all'altro, quasi fosse un dono fattoci dalla scrittrice per evidenziare i mutevoli punti di osservazione della vicenda umana che ci viene narrata? Non mi è chiara la funzione del ritornare continuo di questo oggetto, se sia o meno un escamotage letterario o se mi manchi la sensibilità per capire un piano di lettura ulteriore e diverso da quello principale.

Non aggiungo altro se non che attendo il seguito perché solo con il quadro completo dell'opera potrò dare un giudizio definitivo.
Ma se mi si domandasse: lo rileggeresti? Io risponderei di sì.

Il libro in una frase
"Cosa succedeva, insomma, nel mondo degli adulti, nella testa di persone ragionevolissime, nei loro corpi carichi di sapere?"

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