Autore: Silvio Danese
Editore: La nave di Teseo
Anno edizione: 2020
Genere: Narrativa italiana contemporanea
Pagine: 525
Valutazione: ***
Consigliato: a chi è sensibile alla tematica della
violenza di genere e interessato all’approfondimento della psicologia delle
vittime e del rapporto vittima-carnefice
Uno scrittore, intenzionato a
realizzare un libro-verità su una vicenda giudiziaria assurta agli onori della
cronaca per la sua efferatezza, ottiene l’autorizzazione a intervistare
Stefania, uxoricida, con alle spalle una lunga unione matrimoniale
caratterizzata da violenza e sopraffazione. Si reca pertanto, per cinque
giorni, nell’istituto di pena per raccogliere le memorie della donna, il
racconto della sua vita e degli eventi che hanno condotto alla pesante condanna
che sta scontando.
Da subito il lettore si
rende conto che, più che un’intervista, è un incontro-scontro fra due
temperamenti forti. Stefania è
alla ricerca di un interlocutore in grado di ascoltare la sua verità, al
di là di quella emersa dalle carte del processo e dalle perizie psicologiche
cui è stata sottoposta. Lo
scrittore – dapprima distaccato e professionale e successivamente conscio di avere instaurato un
dialogo che, sottotraccia, lo costringe ad abbandonare le proprie certezze di
uomo colto, civile, perbene e perbenista – prende
atto che l’aggressività ha tanti modi per essere declinata e si nasconde nei
meandri dei rapporti umani, pronta a prendere il sopravvento quando riaffiora
l’istinto primordiale di possesso:
“Quando un maschio lascia sul
terreno il corpo di una donna adotta una vendetta sul mondo. A voi non la
lascio. Non ne godo io, non ne gode nessuno”.
E ancora, l’intervistatore/scrittore
considera tra sé e sé: “Sono sfacciatamente preso da questo mistero, perché
invece di voltare pagina di giornale, ci sono caduto dentro, vorrei capire come
si passa dall’odore della pelle al sapore del sangue in casa vostra”.
A mano a mano che l’incontro
progredisce, i colloqui in parlatorio si trasformano in un viaggio interiore
del protagonista maschile negli oscuri meandri della propria umanità, si
percepisce la sua impellenza di trovare una ragione per la violenza, di capire
da dove nasca e se sia in parte connaturata a qualunque individuo, o se il
bisogno di dominare abbia origini ambientali, culturali e sociologiche:
“Ma io la aiuterò, la capirò.
Entreremo insieme nel quotidiano, nell’intimità, nel dolore, e poi nella
sciagura. Infine prenderò la mia strada, speriamo il volo. Ne farò un romanzo.
Ci saranno gli altri. I genitori, di lei, di lui, il recondito dei fatti
trascorsi proiettati nel presente, tempi larghi, gli amici, i colleghi. Le
trame della condotta amorosa… Lei capirà che dobbiamo soltanto cercare un modo
giusto per raccontare la sua storia. Deve fidarsi di me, si fiderà di me”.
Mentre –
nel corso di oltre cinquecento pagine - impariamo a conoscere il nome dei
figli, del marito, dell’amante, dell’amica del cuore, dell’avvocato, persino
dei parenti acquisiti di Stefania, lo scrittore non viene mai identificato con
il proprio nome: il suo ruolo viene intenzionalmente circoscritto
all’indispensabile, per dare il massimo risalto alla tragica vicenda – per
certi versi universale - della vittima che si è fatta carnefice.
La scrittura è densa, musicale, evocativa,
con continui cambi di registro dal lirico alla fredda cronaca, e periodi a
volte lunghi ed elaborati sotto forma di flusso di coscienza. Si alternano
momenti in cui si assiste alla riproduzione – quasi in forma di verbale di
interrogatorio – dei colloqui fra i due, ad altri in cui l’intervistatore medita,
rielabora il trascritto, tenta di abbozzare le pagine di un romanzo che non ha
certezza di saper portare a compimento, tanto è complessa e ambigua la
relazione sentimentale di odio e amore, tenerezza e rabbia, trasporto erotico e
senso di responsabilità per i figli, che permea l’intero racconto della vita di
Stefania. Questa è vittima
di stessa e delle proprie fragilità, prima ancora che dell’ex marito paranoico
cui si affida, ancora ragazza, forse inconsciamente determinata a sostituire la
figura del padre, controversa e assente nella sua vita di bambina e poi di
adolescente insicura.
L’intervista alla
sposa di Silvio
Danese è un’opera dura, potente nei toni, con un finale spiazzante, che
non indulge in retorica o in facili spiegazioni psicoanalitiche: vuol far
pensare il lettore, ponendolo – con una brutalità intenzionale che in alcuni
tratti si fa poesia – di fronte a questioni attuali e irrisolte, lasciandogli
l’onere di prendere una posizione autenticamente personale, magari non
definitiva ma interlocutoria, pur sempre frutto di una propria elaborazione
della vicenda.
Il libro in una citazione:
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