GLI OSSERVATI
Autore: Jennifer Pashley
Editore: Carbonio – Collana Cielo Stellato
Anno edizione: 2021
Genere: Narrativa USA moderna e contemporanea
Pagine: 295
Valutazione: 4,5*
Consigliato: a chi ama la
narrativa americana, i thriller psicologici a sfondo sociale
Nord Est degli Stati Uniti, a un
passo dal confine canadese. A Springs Fall, piccolo centro della Contea di
Hamilton, si insedia presso il Comando di polizia Kateri Fisher, detective poco
più che trentenne. Alle sue spalle c’è un periodo complicato di dipendenza
dall’alcol e un grave incidente che ha messo a rischio la sua vita prima ancora
che la sua carriera:
“Non ricordava di essere
uscita dal bar o di essersi messa al volante. Quella notte era un buco nero. Si
era svegliata in ospedale con cinquantadue punti di sutura sotto il mento, un
polso rotto e due costole incrinate. L’avevano ricoverata al reparto per le
dipendenze”.
Kateri ha umili origini, una
madre tossica, i genitori sono mancati quando era ragazzina ed è cresciuta con
la nonna. Dopo la morte di quest’ultima – legame con le sue radici - e il
divorzio, lasciare Syracuse diventa un imperativo per tentare di darsi
un’occasione di felicità e per ricostruirsi una reputazione professionale.
In una vecchia casa fuori dal
centro abitato, al limitare del bosco, è sparita una donna – Pearl Jenkins. Alcune
ossa umane, presumibilmente di Pearl, vengono rinvenute semibruciate nella
vicina radura. Di suo figlio adolescente Shannon non vi è traccia. Nello
sgabuzzino, chiusa a chiave, viene ritrovata una bambina di circa cinque anni,
che dice di chiamarsi Birdie e di essere figlia di Pearl. Per l’anagrafe, i
registri di nascita e quelli scolastici Birdie non esiste ufficialmente.
E’ subito chiaro per gli
investigatori che Birdie è stata tenuta nascosta dalla madre.
Strano personaggio, Pearl
Jenkins. Anni prima è scampata a un tentativo di omicidio ai danni suoi e del
piccolo Shannon, per il quale è stato condannato in via definitiva suo marito Park.
L’incidente l’ha lasciata inabile al lavoro e dipendente dagli antidolorifici.
Da allora vive con i sussidi della previdenza sociale e l’aiuto del figlio
Shannon, che fa il lavapiatti. Ha il terrore che il marito – tuttora detenuto -
la controlli tramite i suoi sodali della malavita organizzata locale; per
questo vive barricata nella casa fatiscente di Hidden Drive, lotto 17,
circondata da telecamere a circuito chiuso che trasmettono 24h le immagini di
chi passa per strada.
Shannon è un ragazzo intelligente
e sensibilissimo, non ha concluso gli studi, è molto protettivo con la
sorellina e teme a sua volta che il padre possa fare uno sproposito una volta
uscito di prigione, preso atto che la piccola non può essere sua figlia:
“Ero quel tipo di ragazzino
che si metteva spesso nei guai. Che veniva sgridato perché prendeva le
scorciatoie attraverso i giardini privati, che veniva sospeso da scuola, che
faceva chiamare gli sbirri dai vicini di casa. Tutto di me lasciava presagire
che prima o poi, in un modo o nell’altro, sarei finito arrestato, picchiato o
ucciso”.
Shannon è un’anima innocente e
non ha ancora accettato il suo orientamento sessuale. E’ attratto dagli uomini,
certamente, ma manca di esperienza e non gli sono state trasmesse le coordinate
necessarie per comprendere quale sia la differenza tra amore e possesso, tra
tenerezza e sensualità. Povero, poco istruito, sottoposto a violenze domestiche,
senza prospettive di emancipazione, è il perfetto indiziato per il delitto di
sua madre.
La situazione si complica quando
Birdie viene prelevata dall’ospedale della contea da un misterioso uomo che si
qualifica come tutore legale della piccola. Poco dopo, il poliziotto di scorta
della bambina viene ritrovato ucciso all’interno dell’abitacolo della sua
vettura, occultata in un corso d’acqua.
Tutti gli indizi sembrano condurre
a Shannon, che protesta la propria innocenza, inascoltato: Kateri ne percepisce
l’immaturità e il disorientamento di fronte a un evento così grave, e si
adopera per seguire piste alternative che sembrano convergere sulle
frequentazioni maschili del ragazzo.
In particolare, l’attenzione di
Kateri e del collega Hurt si fissa su Bear Miller, ricco rampollo di una
famiglia di costruttori edili, che sta realizzando a Spring Falls un quartiere
destinato alla upper class, lussuoso ed esclusivo. Bear ha un passato
oscuro ed esercita sul giovane Shannon tutto il suo fascino inquietante, arrivando
a sedurlo e a sottometterlo psicologicamente:
“Non potevo farmi scoprire da
mia madre. E non avrei mai potuto portare a casa Bear, o raccontargli di
Birdie. Pensai al suo modo di mostrare tutto se stesso quando ti offriva
qualcosa o rideva, mente io sarei stato capace di far trapelare solo uno
spiraglio di me. Era come avere due vite separate. Come se davanti a me si
stesse ergendo un muro, e ogni giorno avrei dovuto avventurarmi dall’altra
parte per vivere ogni volta una vita diversa”
Ma non è l’unico uomo adulto che
orbita attorno a Shannon, sempre più avviluppato nella rete di possesso,
violenza e sesso di Bear: c’è anche Baby Jane, un misterioso vicino di casa,
tenero e gentile, che osserva con discrezione i Jenkins e sembra sapere molte
cose sul loro passato.
Come già nel suo precedente
romanzo “Il caravan”, pubblicato in Italia nel 2020, la Pashley ci racconta l’America
dei cosiddetti White trash, i bianchi poveri, sfruttati, privi di
istruzione e di futuro, il sottoprodotto della cultura americana tutta
proiettata al raggiungimento del successo economico e all’affermazione edonistica
della personalità.
Lo fa con realismo, utilizzando
una scrittura aspra e poetica che non lascia spazio al facile sentimentalismo:
i personaggi sono cupi, abbruttiti dalla violenza che hanno subito e che
sistematicamente infliggono in un circolo vizioso impossibile da spezzare, senza
redenzione eppure così fragili, irrimediabilmente perdenti di fronte alle sfide
della vita.
Per stile espressivo, tematiche
ed efficacia ricorda – pur nella sua originalità – un’altra grande scrittrice,
Joyce Carol Oates, che ha voluto mettere il focus sulle enormi contraddizioni
dell’America contemporanea, regalandoci grandi affreschi come, tra gli altri, la
quadrilogia di Wonderland.
Da un punto di vista stilistico
Jennifer Pashley ha coraggio da vendere: adotta l’espediente – temibile nelle
mani di chi non sa destreggiarsi con naturalezza - del duplice io narrante, che
si alterna capitolo dopo capitolo.
Non solo: costruisce la storia su
un doppio piano temporale.
Quando la vicenda è narrata dal
punto di vista di Kateri Fisher, l’autrice scrive in terza persona e al
presente (ad eccezione di pochi passaggi), così da condurre il lettore
direttamente sulla scena del crimine e nei luoghi dell’investigazione. Quando
il punto di vista adottato è quello di Shannon, invece, passa al racconto in
prima persona e il tempo verbale utilizzato è inizialmente il passato – sintanto
che il ragazzo ricostruisce il suo background familiare – per poi sfociare nel
discorso al presente, nell’esatto momento in cui le azioni dei due protagonisti
si affiancano, e successivamente si intersecano per poi avviarsi all’epilogo
che scioglie tutti i nodi narrativi.
Il libro in una citazione
“Mentre tornavo a casa mi ricordai quanto avrei voluto
raccontare di lei alla gente, non perché desiderassi mettere in pericolo mia
madre, ma perché la adoravo. Volevo portarla in giro per il paese, vantarmi di
lei, andare al mercatino e comprarle i pancakes. Sarebbe stato giusto che
andasse a fare dolcetto o scherzetto, o che vedesse l’albero di Natale in
centro. E non solo i video in bianco e nero della sorveglianza sullo schermo
gigantesco in salotto. Non solo il letto di mia madre. E mai e poi mai
l’interno di un ripostiglio.
Dovevo fare in modo che tutto
questo si realizzasse. Per lei. E per me.
Non la vedevo come una
scelta.”